La Nuova Sardegna.
Il gladiatore dell'Amsicora
Gigi Riva, il Davide sardo contro i Golia del nord
La straordinaria avventura del Cagliari dello scudetto nel libro di Nanni Boi "Un tiro mancino"
Di Piero Mannironi
Sul "Mondo" diretto da Arrigo Benedetti Gianni Brera scrisse che è molto più facile tradire
l'amore per una donna che quello per una squadra di calcio. Un paradosso? Forse. Ma forse
Brera aveva ragione. Comunque è altrettanto vero che non è impossibile il contrario. E cioè
che si può tradire anche una passione sportiva. Proprio in Sardegna c'è stato un uomo, un
grande atleta, che è stato capace di esercitare un fascino ipnotico, una magica suggestione,
tanto forte da provocare il "colpo di fulmine" sportivo. Ma forse, sempre ricordando Gianni
Brera, sarebbe meglio dire il "rombo di tuono"../text/. Insomma, un uomo capace di incantare e di
affascinare, trascinando molti tifosi al tradimento di antichi e consolidati amori calcistici.
Gigi Riva da Leggiuno, gladiatore degli stadi, ha incarnato il mito dell'impavido Davide sardo
che si batteva contro i Golia del calcio. L'uomo della provvidenza e del riscatto per un'isola
prigioniera delle catene del pregiudizio. Erano infatti gli anni del banditismo, di Graziano
Mesina e dei baschi blu.
Anni oscuri e difficili, quelli. Sulle prime pagine dei quotidiani nazionali la Sardegna era
rappresentata come un'isola violenta e arretrata, e gli occhiali ideologici del 1968 avevano
portato molti inviati "continentali" a dare addirittura una dimensione eroica alla vita disperata
dei latitanti. Descritti perfino come probabili epigoni di un ribellismo fondato su solide radici
sociali: uomini ferrigni, legati a un rigoroso codice d'onore, che imbracciavano lo schioppo per
combattere leggi ingiuste, costruite per proteggere un sistema sociale iniquo.
Ovviamente non era vero, ma molti giornalisti si innamoravano delle loro romantiche bugie.
Finendo addirittura per crederci. Come Federico Patellani, Gigi Ghirotti e Guido Vergani che
contribuirono a creare, pur senza volerlo, un mito fasullo.
Sta di fatto che l'equazione Sardegna uguale isola dei banditi divenne un assunto scontato,
quasi un luogo comune. Il racconto deformato e deformante dei media oscurava
inconsapevolmente la realtà drammatica di quel tempo. Non certo per i sardi, però, che negli
anni Sessanta si sentivano sempre più lontani dal resto dell'Italia del boom economico, appesi
all'esile filo di speranza del Piano di Rinascita.
Per capire cosa significò e cosa significa ancora per la Sardegna l'avventura sportiva di Gigi
Riva e del Cagliari è quindi necessario partire da quel contesto e da quel sentire collettivo.
L'avere raccontato la straordinaria galoppata del Cagliari verso lo scudetto del 1970, con la
precisione e la competenza del grande cronista sportivo, miscelandola poi sapientemente con
le testimonianze dei protagonisti della storia di quegli anni, è il grandissimo pregio di un libro
che, probabilmente, doveva essere scritto trent'anni fa.
Un tiro mancino. Riva, il Cagliari e uno scudetto che non finisce mai di Nanni Boi (Edizioni Kalb,
Cagliari) fa rivivere antiche emozioni a chi ha superato i quarant'anni e ha quindi vissuto quella
stagione. E fa capire ai giovani di oggi cosa ha rappresentato, anche sotto il profilo culturale e
sociale, un evento sportivo che scardinò un'antica, e apparentemente inossidabile, gerarchia
dei valori sportivi. Una gerarchia che era poi anche economica e di potere.
Leggere il libro di Nanni Boi, conosciuto e stimato giornalista della Nuova Sardegna, è come
sfogliare il libro del tempo. Ci si specchia in sentimenti vissuti e si ripercorre sul filo della
memoria una stagione nella quale la TV era meno invadente. E forse per questo anche più
affascinante. In quel piccolo schermo, che rassomigliava ancora un po' all'oblò di una lavatrice,
piccole ombre in bianco e nero cominciavano a rubare ai giornali l'esclusiva del racconto della
vita. E così Riva non era più soltanto una foto retinata e un po' impastata, un'immagine
immobile incapace di raccontare una prodezza atletica. Riva non era più soltanto un'emozione
raccontata in modo immaginifico dai giornalisti, fino a pochi anni prima unico filtro e motore
della complessa alchimia dell'informazione.
Così Gigi Riva non era più solo il "belluino Riva, vero condottiero del Cagliari" come
scriveva Brera, ma un volto, un gesto sportivo. "Rombo di tuono", il lombardo diventato sardo
per scelta, era soprattutto il simbolo di una rivincita tanto attesa, il condottiero di una squadra
creata dal genio sornione di Manlio Scopigno, detto il Filosofo.
E' molto vero quello che scriveva sempre Brera per raccontare, con poche pennellate
magistrali, il clima di quegli anni: "Manlio Scopigno canta le laudi del suo campione senza
ritegni filosofici di sorta. La Sardegna impazzisce per lui. I pastori vegliano sul gregge tenendo
la radiolina all'orecchio durante le trasmissioni della domenica. Il vecchio stadio dedicato ad
Amsicora, il Vercingetorige locale, non basta a contenere i tifosi che con ogni mezzo affluiscono
a Cagliari dalle città e dai paesi più lontani dell'isola".
Già, l'Amsicora, il piccolo Colosseo dove i moderni gladiatori del Cagliari combattevano le loro
battaglie sportive, che per la Sardegna erano anche battaglie d'orgoglio. Era l'arena nella quale
Riva era come uno sciamano che creava e dirigeva un rito collettivo.
Per poterlo raccontare è probabilmente necessario arrivare a un tradimento. Un altro. E cioè a
quello della regola che impone al giornalista di spersonalizzarsi quando riferisce gli eventi,
nascondendosi dietro una neutra terzietà. Perché in un freddo e luminoso pomeriggio del
dicembre 1970 chi scrive abbandonò un antico amore sportivo, stregato dalle brutali e
selvagge magie di Riva. E non era facile abbandonare il Milan del paròn Nereo Rocco e del
poeta della pedata Gianni Rivera, del ragno nero Cudicini e di quell'implacabile avvoltoio
dell'area di rigore che era Pierino Prati: un giovanottone di Cinisello Balsamo che l'anno
precedente aveva "punto" mortalmente i "Celti" nella loro tana ghiacciata di Glasgow e aveva
infilato tre palloni velenosi nella porta del non ancora leggendario Ajax di Johan Cruijff.
Quel giorno ero andato in curva per ammirare (e tifare silenziosamente) quel Milan che era
tornato sul tetto d'Europa, rinverdendo i fasti dello squadrone di Josè Altafini e di Dino Sani.
Ma all'Amsicora quel pomeriggio scoprii Riva, spietato ed egoista faro e guida del Cagliari.
Quando il pallone arrivava dalle sue parti, calava il silenzio. Improvvisamente. Un silenzio
assoluto e impossibile: era l'attesa dell'evento. E Riva partiva. Come un treno, come un'onda
in piena. L'aria cominciava piano piano a vibrare: prima un brivido, poi un sussurro, poi un
brusio che cresceva con l'incedere potente e dirompente del gladiatore con la maglia numero
11. Fino a diventare un ruggito, un boato, quasi un tuono che metteva i brividi ed era capace
di scuoterti le budella. E Riva pareva volare su quel fragore che sembrava un'onda violenta.
Il tradimento si compì quando Riva scagliò un missile da oltre trenta metri che fece sembrare
goffo l'inutile volo di quell'immensa libellula nera che era il grande Cudicini. Per la cronaca,
Prati riuscì fortunosamente a impedire l'umiliazione della sconfitta al Milan campione del
mondo e d'Europa, ma il Diavolo quel giorno uscì a pezzi dall'Amsicora.
Chi ha vissuto quelle emozioni non può non capire che il libro di Nanni Boi è un atto d'amore.
Un riconoscimento a un'impresa calcistica che andò oltre lo sport e che seppe coinvolgere
un'intera regione, smentendo l'antico assunto secondo cui il calcio è sport di città contro. Solo
sport di campanili.
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